Usurocrazia e sovranità monetaria - ultima parte

20.05.2015

Epilogo

Nel nome del Dio Mercato e del profitto estremo si stanno smantellando tutte le conquiste sociali del secolo passato: dal posto di lavoro stabile e duraturo al diritto di sciopero, dalla salvaguardia del potere d’acquisto per stipendi e pensioni allo stravolgimento del sistema previdenziale e sanitario; dall’attacco sistematico e concentrico alla contrattazione nazionale all’imposizione di contratti individuali; dalla “riforma” delle retribuzioni, sempre più relegate nella spirale perversa della produttività senza limiti alla contrazione dei diritti personali e sindacali; dalla criminale restrizione del credito alle piccole e medie imprese, all’artigianato e al commercio, con conseguente aumento della disoccupazione, al sempre più massiccio ricorso al lavoro sottopagato o in nero.

Le banche non sono certamente estranee a tale logica. Da alcuni anni lo stanno pesantemente sperimentando sulla propria pelle i lavoratori del credito: scorpori, cessioni di rami d’azienda, accorpamenti, fusioni, delocalizzazioni e “banconi” vari sono oggi il pane quotidiano che i grandi gruppi bancari, divenuti vere e proprie multinazionali, distribuiscono ai propri dipendenti e alla collettività tutta.

È forse lo stesso mercato, come ha denunciato a ragione Claudio Tedeschi dalle colonne de Il Borghese di qualche tempo fa, «(...) controllato e gestito dalla finanza internazionale e dai grandi gruppi bancari che hanno portato le borse al tracollo? Lo stesso mercato che è servito alle grandi banche d’investimento (Goldmann Sachs, una per tutte) per mentire, speculare, raccogliere denaro buono e vendere titoli “taroccati” ed i cui dirigenti percepivano stipendi annuali nell’ordine di milioni di dollari, mentre i cittadini truffati perdevano il lavoro e la casa, travolti dallo scandalo dei mutui sub prime? No, non intendiamo morire in nome del libero mercato».

Sì, ribadiamo noi, si tratta della stessa logica del “Libero Mercato über alles” che, soprattutto a partire dall’ultimo decennio, sta inesorabilmente trascinando nel baratro anche il mondo del lavoro e della produzione italiani. E se da un lato concordiamo pienamente con la soluzione prospettata dall’articolista riguardo alla nazionalizzazione della BCE e alla creazione di una Banca centrale europea che sia emanazione dei singoli governi per abbattere finalmente il signoraggio sulla moneta, facendo così crollare non solo il costo del denaro ma anche i deficit dei singoli Stati membri, dall’altro noi prospettiamo un ulteriore affondo attraverso la socializzazione delle principali risorse strategiche e produttive delle Nazioni. Solo in questo modo si potrà ristabilire nel Lavoro (colla elle maiuscola) il valore fondante dell’uomo, sulla scia dell’esperienza, breve ma pregnante, della parentesi socializzatrice che l’Italia della RSI sperimentò negli ultimi mesi della guerra: la socializzazione della Fiat (alla faccia dell’odierno “manager” in pullover!), dell’Ansaldo, della Dalmine, della siderurgia, dei tabacchifici e di tutte le maggiori aziende italiane. Un esempio coraggioso di alta socialità che volle riconoscere nel lavoro e nei lavoratori il nucleo fondante dello Stato e della collettività.

È tempo che i popoli prendano finalmente coscienza che non si può morire né per Maastricht né per le mene dei banksters. Due secoli fa Honoré de Balzac, nel suo famoso romanzo Grandeur et décadence de César Birotteau del 1837, affermava: «Non è scandaloso che alcuni banchieri siano finiti in prigione; scandaloso è che tutti gli altri siano in libertà».

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