La Rivoluzione dello Spirito [parte 2]

05.03.2024
Discorso al Forum della Multipolarità di Mosca, 26 febbraio 2024

La compassione di cui parliamo, questa rahma che segna l'inizio di ogni sura del Corano, è stata tradotta come "vera carità" o "amore purissimo" da famosi prelati cattolici e teologi francesi del XVII secolo. Avevano sentito parlare di una grande santa donna scoperta dai crociati tra i saraceni della Palestina e, credendola cristiana, le dedicarono monumentali elogi, nientemeno che di Rabi'a al-'Adawyya, descrivendola come il "ritratto della vera compassione". Questa donna straordinaria, le cui appassionate poesie sono ancora memorizzate e cantate dalla Malesia alla Mauritania, è conosciuta nell'Islam come shahidat al-'ishq al-ilahi, la vera testimone dell'amore di Dio.

Tuttavia, shahid non significa solo testimone in arabo. Proprio come in greco, dove la parola martys - che significa testimone - diventa martire nel Nuovo Testamento, la parola shahid nel Corano indica qualcuno che muore per devozione a Dio. Il primo martire dell'Islam fu una donna, Sumeyah. Fu la sesta persona ad abbracciare la fede, subito dopo l'inizio della Rivelazione al Profeta Muhammad *. Fu torturata per giorni dai politeisti della Mecca sotto il sole cocente e infine trafitta e impalata con una lancia davanti al figlio piccolo, ma rimase salda e morì come martire, prima testimone perenne dell'Islam.

Nel mio Paese, la Sicilia, le sante patrone, guaritrici miracolose i cui veli sacri proteggono da terremoti, eruzioni vulcaniche, tumori al seno e stupri, sono tutte donne, giovani vergini morte di fame o accecate o bruciate vive o fatte a pezzi per la loro forza d'animo e determinazione. Il loro cammino luminoso è ancora molto vivo nel nostro popolo.

Sembra quindi che attraverso i secoli e le religioni, in Occidente come in Oriente, le virtù della compassione, del vero amore, della testimonianza della Verità e della morte per essa siano state riconosciute come una vocazione essenzialmente femminile.

Eppure, quando un anno e mezzo fa Darya Dugina, una giovane filosofa che rappresentava al meglio l'Europa, con la sua capacità di fondere la metafisica greca e la tradizione cristiana, è stata brutalmente assassinata in un attentato terroristico, nessun prelato romano l'ha celebrata come paladina della devozione, nessuna femminista indignata ha chiesto sanzioni internazionali per il crimine, nessuna ONG l'ha candidata a un premio per i diritti umani.

Perché? È solo perché Darya era russa e orgogliosa di far parte di una nazione che ha descritto come "capace di compassione ed empatia"? È perché secondo lei, a differenza del concorrente "uomo lupo" occidentale, l'anima russa ha una morbidezza, una mancanza di rigida razionalità, che trasforma in forza, ricollegando il mondo e curandone le ferite?

No, non è così. Nessuno si era preso la briga di ascoltare questa straordinaria filosofa poliglotta, che era anche una donna atletica, elegante, artistica, moderna. Il desiderio di perfezione e di bellezza di Darya e la sua ansia di contemplare l'essenza assoluta della Verità erano semplicemente nascosti dietro l'aspetto di una giovane giornalista. Come tutti i suoi predecessori martiri, era un'ancilla abscondita, una devota serva di Dio protetta dietro un velo di normalità.

Fu solo quando, affrontando l'Impero del Caos, Darya alzò il suo nome Platonova come una bandiera per affermare che essere donna oggi significa scegliere tra due archetipi opposti, che finalmente il nemico si accorse di lei. Perché aveva rivelato la scelta imperativa che attende tutte le donne di oggi. Il confronto mortale e avvincente che avrebbe dovuto rimanere nascosto sotto le questioni di genere e le rimostranze femministe. O lasciarsi sedurre dal modello trionfante di Didone, la regina fenicia che invocò le forze degli inferi per maledire con un rito satanico il suo amante Enea, che non riuscì a distogliere dalla sua missione divina; o di seguire, con enorme rischio, il sacro cammino della Beatrice dantesca, l'Essere Perfetto che conduce il suo uomo oltre i livelli più alti del Paradiso fino alla contemplazione del Trono Santo.

Traduzione a cura di Lorenzo Maria Pacini

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