Crisi culturali e grammatiche della multipolarità

01.10.2025

Nel suo trattato Verso la pace perpetua (Zum ewigen Frieden, 1795), Kant aveva sostenuto che la moralità razionale deve essere alla base di un ordine politico giusto e duraturo, insistendo sul fatto che la pace non è semplicemente l'assenza di guerra o un fragile equilibrio di potere temporaneo – una “pace transitoria” – ma una condizione giuridica attivamente stabilita attraverso principi a priori derivati dalla ragione pratica.

Dopo la caduta del muro di Berlino, gli europei si concessero una pausa dalla Realpolitik, adottando un atteggiamento più kantiano dello stesso Kant, convinti che l'ideale della pace perpetua fosse a portata di mano.

Sostenute da questa visione, le euforiche élite occidentali, persuase che la storia avesse raggiunto il suo trionfante epilogo, si misero a imporre la propria sintesi del materialismo dialettico, intraprendendo una serie di interventi globali per plasmare il mondo a propria immagine e somiglianza, perdendo così il contatto con la realtà, come abbiamo discusso altrove. Pertanto, la crisi in corso in Ucraina rivela non tanto l'esaurimento dell'agonismo dialettico tra gli Stati quanto l'incapacità degli intellettuali occidentali di articolare una visione equa e pluralistica del mondo (Huntington, 1996).

Al contrario, il divieto della Chiesa ortodossa ucraina riecheggia il vandalismo iconoclastico di Oliver Cromwell e il Kulturkampf di Bismarck, tradendo il tentativo di imporre un monoculturalismo che sostituisce la laïcité (la neutralità passiva dell'autorità civile nei confronti della religione) con il laïcisme (la militanza attiva dell'autorità civile contro la religione), sostituendo la cultura alla religione.

È opportuno sottolineare qui che, mentre Friedrich Gogarten sostiene giustamente che fede e cultura non possono operare all'unisono – poiché se le crisi culturali travolgono la religione, ciò significa la dissoluzione della religione nella cultura, mentre la religione dovrebbe essere la crisi di tutta la cultura (Gogarten, 1953), non meno convincente è la tesi di Paul Tillich secondo cui la religione costituisce la sostanza della cultura e la cultura la forma della religione (Tillich, 1959).

A un esame più attento dei molteplici sforzi volti a omogeneizzare le culture nazionali, incontriamo la premessa centrale dell'idealismo hegeliano: vale a dire che l'essere individuale si forma attraverso la negazione dell'assoluto, di cui nega contemporaneamente la soggettività storica (negando prima l'universalità della ragione astratta, poi negando la negazione astratta di tale universalità), fino a riscoprire l'assoluto al raggiungimento della conoscenza di sé. Questa negazione della negazione, sublimandosi, diventa un principio affermativo, la forza motrice della Storia (Hegel, 1807/1977).

Questo è il complesso fondamento della tesi dialettica della fine della storia, la cui inadeguatezza il suo autore si rifiuta di riconoscere, nonostante l'emergere palpabile di una realtà multipolare (Fukuyama, 1992).

Il fallimento finora del progetto di egemonia culturale globale costituisce, nella sua essenza, un caso di dialettica negativa, in cui gli attori nazionali che si oppongono criticamente ad esso sostengono la negatività – antitesi – criticando la sistematizzazione della cultura – sintesi – dando priorità all'oggetto rispetto al suo concetto e mettendo in primo piano le dimensioni intellettuali, etiche e praxiologiche della realtà storica rispetto all'idealismo astratto del globalismo (come sintesi di teologia secolare, etica, politica economica e scienza). Ciò denota un senso genuinamente dialettico (attraverso la negazione del falso), in cui ogni elemento della relazione diventa ciò che è attraverso l'opposizione all'altro (Adorno, 1966/2007).

Tra le componenti di questa sintesi, l'aspetto religioso della civiltà merita particolare attenzione. Con Samuel Taylor Coleridge, adottiamo la premessa che il cristianesimo possiede la virtù di esistere simultaneamente come forma intellettuale e pratica devozionale, consentendogli di rivolgersi in modo coerente sia all'intellighenzia che alla gente comune, proclamando l'universalità della sua chiamata (Coleridge, 1817/2009). Questo rimane vero, poiché il tentativo moderno di eliminare la dimensione religiosa dell'esistenza umana – di “uccidere Dio” – ha generato incredulità e malinconia, sottoprodotti di una cultura industrializzata che, rinunciando al suo ruolo di critica sociale e conforto estetico, è ridotta a mera distrazione (Nietzsche, 1882/2001).

Il soggetto postmoderno, a differenza di quello moderno, è caratterizzato dall'indifferenza verso la morte di Dio, privo di un senso tragico della vita, che lo proietta in una futile ricerca di profondità e intenzionalità dentro di sé per sfuggire a un sé che aborrisce ma che non può sostituire, poiché la morte di Dio significa che non trova più nell'umanità una dimora interiore (Taylor, 2007). In questa situazione difficile, l'umanità vaga tra artifici e apparenze, con l'unico obiettivo di produrre per consumare e consumare per produrre. Tuttavia, l'umanità intuisce che, al di sopra di questa esistenza disincantata, è radicalmente legata a una dimensione personale dell'essere che la collega al trascendentale.

In altre parole, questo religare – innato nell'umanità – non è semplicemente possedere la religione, ma essere religione: la capacità di dare significato alla vita e alla morte attraverso un atto di libero arbitrio (Zubiri, 1986). A differenza della coercizione, religare non denota una sottomissione condizionata, ma una connessione incondizionata con tutto ciò che è reale in quanto reale, fondata sull'essere stesso, vale a dire la realtà “assolutamente assoluta” che chiamiamo Dio, “più intima a noi di quanto noi lo siamo a noi stessi”.

Ricordando ancora una volta Gogarten, notiamo la condizione dialettica negativa di questa intimità: se, nel cercare di conoscere Dio, impariamo a conoscere noi stessi, la dualità tra creatore e creatura deve essere negata, un e per una relazione dialettica che precluderebbe la loro unione, suggerendo che la dialettica non risiede nella nostra relazione con il creatore, ma nella nostra stessa esistenza (Gogarten, 1953).

La seconda premessa, che rafforza la prima, si basa sulla permeabilità del cristianesimo e sulla struttura dinamica della sua comunione, che ha trasceso circostanze individuali e storiche specifiche, incorporando espressioni religiose e filosofiche di altri popoli (ad esempio, la giustapposizione del misticismo ebraico, razionalismo ellenistico e legalismo romano, come era già avvenuto in precedenza con le forme religiose mesopotamiche ed egizie) senza soccombere al sincretismo, influenzando a sua volta altre culture (Eliade, 1959).

Questa duttilità conferisce al cristianesimo la potenza teologica di fungere da fondamento per la comprensione essenziale tra i popoli che rifiutano l'inevitabilità della sintesi globale. Infatti, il Concilio Vaticano II ha incoraggiato il riconoscimento dei valori positivi e dei principi di verità nelle religioni non cristiane come via per il dialogo. Un primo precedente di questo percorso di inculturazione si trova in Matteo Ricci, il gesuita del XVII secolo che utilizzò l'etica stoica di Epitteto, articolata nell'Enchiridion, come veicolo per la propedeutica cristiana all'interno della cultura confuciana cinese, sottolineando una filosofia della ragione e della realtà delle cose come intersezione tra cristianesimo e confucianesimo.

Ciò ebbe un notevole impatto tra gli intellettuali cinesi, culminando nella pubblicazione nel 1603 del suo catechismo, Tianzhu Shiyi (Il vero significato del Signore del Cielo), che si assicurò un posto accanto agli insegnamenti taoisti, buddisti e confuciani, trasmettendo le verità cristiane attraverso la ragione e il metodo argomentativo della tradizione scolastica (Ricci, 1603/1985). L'impresa di Ricci comportò un processo personale di kenosis, liberandosi del superfluo nel suo bagaglio culturale per preservare l'essenziale nella sua fede religiosa, incarnando l'aforisma taoista: “dall'esistenza nascono le cose e dal non essere la loro utilità” (Laozi, VI secolo a.C./1993).

Secoli dopo, il filosofo giapponese Tanabe Hajime intraprese un percorso inverso, confrontandosi con la metafisica europea utilizzando elementi sacramentali della dottrina cristiana, come il pentimento (Tanabe, 1946/1986). Tanabe sviluppò una logica in cui le contraddizioni non sono conflittuali e concettualizzò il nulla assoluto (shunyata) non come vacuità ma come un basho trascendente, uno spazio informe di coscienza non oggettivata e privo di antinomie, dove il “Vero Sé” raggiunge uno sviluppo mentale illimitato.

Qui si percepisce l'influenza del dialogo filosofico tra la Scuola di Kyoto, Husserl e Heidegger, mediato da Emil Lask, nonché la concordanza di Heidegger con Hegel sul fatto che “l'essere puro e il nulla puro sono la stessa cosa”, estendendosi ulteriormente per affermare che l'essere, in quanto essenzialmente finito, si manifesta solo nella trascendenza dell'esistenza che galleggia sul nulla (Krummel, 2019).

Da questa eredità filosofica, Tanabe ha formulato la sua metanoetica (zangedō), una filosofia di trasformazione radicale attraverso il pentimento (zange), che si allinea con la nozione cristiana secondo cui il peccato è la separazione da Dio derivante dall'autoaffermazione. La metanoetica è quindi una filosofia di affermazione della negazione assoluta (nulla assoluto), in base alla quale la realtà subisce una critica e una trasformazione assolute, trascendendo i limiti dell'identità logica.

Questo percorso metanoetico di soteriologia attraverso la kenosis – l'autonegazione che porta alla rinascita come nuovo essere – risuona con la teologia della teosi, fondata sulla patristica di Massimo il Confessore (“Egli è disceso affinché noi potessimo ascendere”) e Atanasio di Alessandria (“Dio si è fatto uomo affinché noi potessimo diventare divini”).

Attingendo alla Settima Dimora di Santa Teresa d'Avila, dove descrive l'unione dell'anima con il divino come l'acqua della pioggia che si fonde indistintamente in un fiume che scorre, si trova un'immagine vivida della partecipazione mistica al divino. Questa metafora trasmette non solo vicinanza, ma trasformazione ontologica: la dissoluzione della separazione in un'unità superiore senza perdita di identità. Tale immaginario risuona con la filosofia della metanoetica di Tanabe, che sottolinea un movimento oltre l'ego finito nell'abisso del nulla assoluto, dove l'individualità è sia negata che preservata a un livello superiore di partecipazione.

Allo stesso modo, San Giovanni della Croce concepisce la realtà stessa come unione con l'Assoluto, utilizzando il linguaggio del nulla per articolare la negazione radicale del relativo al fine di essere riempiti dall'infinito. Per Giovanni, la negazione non è una semplice privazione, ma una dinamica purificazione, uno svuotamento dagli attaccamenti e dalle concezioni concettuali, attraverso il quale l'anima diventa ricettiva alla pienezza divina. I suoi Versi sul Monte della Perfezione cristallizzano questo concetto attraverso una dialettica negativa: “Per giungere a godere di tutto, desidera non godere di nulla; per giungere a possedere tutto, desidera non possedere nulla; per giungere ad essere tutto, desidera non essere nulla; per giungere a conoscere tutto, desidera non conoscere nulla”.

Questa visione dialettica mina la possibilità di una sintesi in senso convenzionale, poiché il “qualcosa” finito e afferrabile non può essere combinato in modo additivo per raggiungere l'“Tutto” infinito e inafferrabile. L'infinito non emerge attraverso l'accumulo, ma attraverso la spoliazione. Pertanto, la Notte Oscura dell'Anima può essere interpretata come un processo kenotico in cui il sé viene svuotato per essere unito a Dio. Qui, kenosis e theosis non sono sequenziali ma intrecciate: lo svuotamento divino rende possibile la partecipazione umana alla divinità, mentre lo svuotamento umano rispecchia e risponde alla kenosis divina.

Messa in dialogo con la metanoetica di Tanabe, questa dinamica diventa filosoficamente leggibile come un radicale allontanamento dal potere di sé (jiriki) verso il potere dell'Altro (tariki), una resa metanoetica in un e in cui l'impossibilità di sintesi attraverso lo sforzo umano si apre al dono dell'unione divina. In questa luce, il misticismo di Giovanni e la filosofia di Tanabe si incontrano: entrambi insistono sul fatto che la via verso l'unione con l'Assoluto non si trova nell'autoaffermazione, ma nella paradossale fecondità dell'autonegazione.

Riferimenti

Adorno, T. W. (2007), “Negative dialectics”, traduzione di E. B. Ashton, Continuum, 1966.

Coleridge, S. T. (2009), “Aids to reflection”, Editore J. Beer, Ed., Princeton University Press, 1817.

Eliade, M. (1959), “The sacred and the profane: The nature of religion”, traduzione di W. R. Trask, Harcourt Brace.

Epictetus, (2008), “Enchiridion”, traduzione di G. Long, Dover Publications, 135

Gogarten, F. (1953), “Demythologizing and history”, SCM Press.

Kant, I. (2007), “Perpetual peace: A philosophical essay”, traduzione di M. C. Smith, Cosimo Classics, Lavoro originale pubblicato nel 1795.

Krummel, J. W. M. (Ed.), (2019), “Contemporary Japanese Philosophy: A Reader”, Rowman & Littlefield International.

Tanabe, H. (1986), “Philosophy as metanoetics”, traduzione di T. Yoshinori, V. Viglielmo, e J. W. Heisig, University of California Press, lavoro originale pubblicato nel 1946.

Taylor, C. (2007), “A secular age”, Harvard University Press.

Tillich, P. (1959), “Theology of culture”, Oxford University Press.

Zubiri, X. (1986), “Sobre el hombre [On man]”, Alianza Editorial.

Traduzione di Costantino Ceoldo