La scuola: fondamento della coscienza civile e nazionale di un popolo

28.09.2016
Con questo articolo inauguriamo un'ampia riflessione sul delicatissimo tema della scuola in Italia. Nel corso delle prossime settimane torneremo su questo tema, strategico per il futuro del nostro paese

Una riflessione sul tema della scuola richiede due precisazioni come premessa, tanto più doverose nel contesto italiano caratterizzato da un sistema scolastico di lunga tradizione, complesso, culturalmente stratificato e con diffuse criticità.

Il settore dell’istruzione, per la quantità di attori che coinvolge, è strutturalmente esposto ai tatticismi politici in cerca di consenso, mentre poco ripaga, in termini di rendita politica, le scelte strategiche a medio o lungo termine. Per questa ragione, ogni intervento volto a modificare l’esistente è sempre politicamente rischioso e richiede coraggio e pazienza.

La macchina dell’istruzione ha meccanismi lenti, tanti automatismi consolidati ma non sempre efficaci, innumerevoli punti di frizione che rischiano di trasformarsi in situazioni di stallo; risulta comunque una realtà tetragona, un filtro dall’enorme mole che continua incessantemente, nel bene e nel male, ad operare: resta forse l’ultima esperienza davvero collettiva per un’intera comunità nazionale. Per questa ragione, ogni intervento richiede una specialistica competenza tecnica, ma anche una condivisa e “creduta”, più che credibile, narrazione di cosa sia la scuola.

Queste due premesse incanalano il discorso di queste righe, solamente introduttivo ad un dibattito attento sui temi della scuola che si spera possa trovare spazio e respiro in questo think tank, lungo due strade da battere per parlare di scuola, per progettarla e, per quanto riguarda chi scrive, viverla ogni giorno: la via del realismo e quella del coraggio. E questo discorso, per ora, non ha come oggetto l’ultima o la penultima riforma, da vagliare con capillare attenzione e ancora da comprendere alla luce della loro applicazione, ma piuttosto alcune costanti del fare scuola da non disperdere, cioè un patrimonio, e alcune variabili da interpretare con protagonismo, cioè delle opportunità.

La scuola è luogo di omogeneizzazione e di individuazione degli studenti: due movimenti che appaiono centrifughi, ma nella loro coesistenza prendono valore. Risultano piuttosto stucchevoli le dispute intorno alla “disfunzione” omologante della scuola, la denuncia del rischio di massificazione e spersonalizzazione dei giovani contrapposto all’esaltazione di entusiasmi individualistici e all’evanescente moltiplicazione di presunti talenti: non devono esistere primati contesi tra le due funzioni. Un sano realismo non può non constatare che la scuola è per sua natura conservatrice e omogeneizzante: insegna ciò che già conosce (fare altrimenti sarebbe furfantesco), stabilisce dei legami orizzontali tra chi la frequenta, confezionando un tessuto culturale identitario, di buona o cattiva maglia a seconda delle situazioni. Allo stesso tempo la natura della scuola è creativa perché contribuisce al riconoscimento delle specificità individuali, alla scoperta della persona che è viva e nuova: ma la novità sarà nell’allievo, non nella scuola. Se la scuola si fa ideologica e retorica spegne questa materia viva; una scuola fatta di concretezza e lavoro sarà magari antica, ma sarà esperienza viva. Ecco un patrimonio.

Un altro elemento di realismo è il quadro politico-culturale nel quale inserire la narrazione della scuola: è ancora realistico considerare la scuola un bene nazionale, senza rincorrere utopistici progetti di metamorfosi privi di fondamenta. Una scuola con radici territoriali, vicina alle piccole comunità regionali, che tanto sembrava andar di moda qualche anno fa, ha mostrato il respiro corto; una scuola che ama definirsi europea, ma che troppo spesso solo scimmiotta modelli intravisti oltre confine e perde di concretezza, non si mostra migliorata; né un sistema scolastico comune europeo sembra essere in cantiere, al punto che già è un obiettivo lusinghiero utilizzare le tabelle di comparazione dei diversi livelli di competenza certificati dai diversi sistemi scolastici europei.  L’istruzione pubblica è oggettivamente parte di una strategia politica nazionale e deve partecipare ad un’azione tesa all’interesse e alla coesione nazionale, proprio in un tempo in cui la congiuntura economica, le guerre e le migrazioni di popoli minacciano di trasformare perfino l’assetto degli stati. Senza retorica alcuna, semplicemente la scuola non può essere palestra di disfattismo nazionale: le scelte di politica scolastica devono corrispondere alle necessità di uno stato, dal punto di vista professionale e civile. C’è bisogno di cittadini attivi e competenti, che possano esprimersi dove si sono formati. Lo studio delle lingue (non solo l’inglese, non solo europee), i progetti di internazionalizzazione, i partenariati con istituzioni scolastiche di ogni continente non sono solo link, non necessitano solo della relazione, ma anche di un soggetto consapevole della propria identità culturale e della propria condizione nello scenario globale, che sappia a che gioco sta giocando. E sappia da che parte sta.

Muovendosi con realismo si può provare a cogliere qualche opportunità, non senza rischi: la scuola è stata investita dalla rivoluzione tecnologica, si ritrova in parte stordita, in altri casi potenziata.  Ora è il momento di assimilare questo cambiamento, accettando la sfida di una rivoluzione linguistica di cui si intravedono gli scenari. La comunità scolastica vive e pensa nella lingua madre, con un certo sforzo; impara lingue che permettono di comunicare con le genti di altre culture, con un certo entusiasmo, ma con risultati parziali; a quando un’istruzione capillare per dialogare con la realtà più invasiva del nostro tempo, la macchina intelligente? Il coding, il linguaggio della programmazione, si affaccia nelle nostre scuole elementari e appare a molti minaccioso, ad altri salvifico: si paventa lo spauracchio di un sapere che disumanizza, di un linguaggio non reale che taglia fuori i più, si valutano i rischi di una mutazione antropologica. Altri cavalcano l’utopia di una comunicazione istantanea e finalmente libera da fraintendimenti. Timori concreti, meno concrete le utopie forse. In ogni caso concreti sono anche i cambiamenti che spesso travolgono, senza convincere o chieder permesso. Anche un nuovo linguaggio ha bisogno di soggetti consapevoli, uomini capaci di gestire la relazione con una macchina intelligente. Introdurre un nuovo linguaggio nella scuola impone la collaborazione tra vecchio e nuovo: se tanto si è discusso di cooperative learning, le strategie per un apprendimento condiviso da parte degli studenti, la moltiplicazione dei linguaggi necessita di un cooperative teaching, un’esperienza di insegnamento condiviso, strategia non nuova, ma poco coltivata. Tocca ai docenti rendere preziosi e ordinari i momenti di progettazione e didattica comune: la cooperazione non è omologazione, non è burocrazia, non è produzione di documenti standardizzati, ma relazione concreta, porte aperte, lavoro di traduzione costante, confronto tra le differenti culture e ignoranze, redazione di percorsi di studio interdisciplinari. I docenti non possono permettersi il lusso dell’isolamento culturale, troppo fragile la loro condizione. Questa attività costante richiede una regìa dall’alto, un indirizzo programmatico chiaro: una chiara cifra professionale, ma anche una mera mansione contrattuale. Non sene esce, senza questo lavoro le opportunità si perdono, i cambiamenti dissestano e basta.

Un’ultima riflessione sulle opportunità. Fiore all’occhiello del sistema scolastico italiano è l’impegno per l’inclusività: la legislazione italiana in materia di disabilità è moderna e apprezzata, la diffusa sensibilità per il disagio è frutto della nostra tradizione culturale. Negli ultimi anni il concetto di bisogno educativo si è ampliato enormemente. Una risorsa preziosa, che introduce il tema della didattica personalizzata, della progettazione dei percorsi modellati sullo studente. Uno sforzo immane, che rischia di diventare utopia se si perde di vista la dinamica sopra ricordata: la scuola deve rendere uguali e diversi allo stesso tempo. E deve rendere riconoscibile la propria funzione fuori dal suo sistema, non essere autoreferenziale: una scuola rigida non coglie la forma degli studenti; una scuola troppo plastica inganna lo studente, rendendolo impalpabile fuori dalle aule. Per una eterogenesi dei fini, modellare sui bisogni educativi personali potrebbe frammentare troppo il processo di istruzione, rallentarlo troppo, renderlo inefficace. Una ricchezza rischia di diventare zavorra e danneggiare tutti. Se tale rischio si fa concreto, bisogna rinunciare al nostro sistema inclusivo? No. Più che affidarsi alla burocrazia e alla ripartizione dei compiti, meglio guardare in faccia la realtà: in ogni contesto c’è chi non può o non vuole fare la propria parte, innumerevoli i buchi da colmare, molte forme cercano contenuto. Bisogna avere il coraggio di educare a fare più della propria parte. La scuola come esperienza di generosa intelligenza. Chi la conosce questa lezione? Speriamo di riparlarne.