Scontro dialettico: Trump, Putin e la crisi dell'ordine ontologico liberale

27.08.2025

Forse la lezione fondamentale che si può trarre dal vertice in Alaska e dalle sue conseguenze è che, nonostante la netta divergenza nelle loro filosofie politiche fondamentali, le attuali traiettorie degli Stati Uniti e della Russia rivelano un tacito allineamento simbiotico. Da un lato, lo Stato civilizzatore russo, sotto Vladimir Putin, afferma il primato del divenire storico e dell'autorità morale sulle rivendicazioni liberali occidentali di universalità, mentre gli Stati Uniti, sotto Donald Trump, mobilitano principi neoreazionari per ristrutturare la sovranità attraverso la concentrazione dell'autorità dell'élite. Queste iniziative procedono in modo indipendente, radicate in concezioni ontologicamente distinte della legittimità; tuttavia, nella loro interazione, generano un effetto di rafforzamento reciproco sulla scena globale, per cui la traiettoria di ciascuna nazione amplia lo spazio ideologico e geopolitico all'interno del quale può avanzare il progetto controrivoluzionario dell'altra.

Questa interdipendenza funzionale non deve essere fraintesa come convergenza filosofica. Al contrario, la radicale asimmetria degli obiettivi – la rivendicazione metafisica della sovranità storica da parte della Russia contro il riordino procedurale del potere istituzionale da parte dell'America – crea le condizioni in cui ciascun attore sfrutta le fratture strutturali dell'ordine liberale, producendo quello che potrebbe essere definito un meccanismo di jiu-jitsu geopolitico inverso.

La Russia sfrutta le contraddizioni insite nella governance liberale – malcontento populista, stallo istituzionale e disorientamento ideologico – per erodere la coesione transnazionale, mentre gli Stati Uniti reindirizzano queste fratture per legittimare coalizioni ad hoc, regimi di sanzioni e riallineamenti strategici, consolidando così la loro preminenza procedurale. La volontà esistenziale della Russia di abbracciare anche lotte nominalmente pirriche, esemplificate in modo vivido in Ucraina, frattura l'unità europea; tuttavia, gli Stati Uniti permettono che tale discordia riattivi la dipendenza dalla loro leadership, trasformando i guadagni russi in strumenti di leva sistemica.

Al contrario, l'interpretazione russa delle sanzioni statunitensi e degli interventi unilaterali come prova dell'impotenza occidentale rafforza la sua narrativa civilizzatrice e rafforza la sua coesione interna. Così, lo scontro sistemico diventa uno strumento deliberato di sovranità: gli Stati Uniti consolidano la loro autorità attraverso reti flessibili e guidate dagli interessi, mentre la Russia si posiziona come artefice di un ordine post-occidentale e smantellando, allo stesso tempo, l'universalismo liberale. L'utilità paradossale del loro antagonismo risiede proprio nella sua asimmetria: la capacità di disturbo di ciascun attore amplia la libertà strategica dell'altro.

All'interno di questa dinamica ricorsivamente simbiotica, la vittima più immediata è il progetto europeo – compreso il Regno Unito – che si trova strategicamente e ideologicamente stretto tra due potenze le cui controrivoluzioni divergenti ma reciprocamente rafforzanti mettono a nudo i limiti dell'autorità di Bruxelles e la fragilità dell'ordine continentale del dopoguerra. L'eleganza di questo tacito allineamento risiede proprio nel suo paradosso: è la profondità delle loro differenze che rende i loro interessi momentaneamente consonanti, per cui la rottura sistemica e il conflitto storico non sono fini a sé stessi, ma strumenti attraverso i quali si consolida la sovranità e si rivaluta la legittimità globale.

È quindi piuttosto straordinario osservare lo svolgersi di una crisi multipla a livello mondiale dalla quale potrebbero scaturire controrivoluzioni radicali. Tuttavia, la complessità e l'interconnessione degli sviluppi internazionali in corso hanno paradossalmente prodotto una diminuzione della diversità noetica, ovvero quella gamma di facoltà interpretative essenziali per rispondere in modo adattivo a un cambiamento sistemico di portata tale che alcuni equiparano alla Reazione Termidoriana del 1794 su scala globale.

Questa carenza intellettuale è particolarmente acuta tra le élite europee, limitate da una comprensione convenzionale del populismo americano e dell'assertività russa, che spesso riducono questi movimenti a volgarità o semplice autoritarismo.

Tali interpretazioni errate derivano dall'incapacità di distinguere tra populus e vulgus nella prassi politica di Trump e di apprezzare la profondità ontologica della sfida della Russia all'ordine liberale occidentale. Il populismo classico rappresenta il corpo politico legittimo (populus) che si oppone a un'élite corrotta, mentre la mobilitazione del vulgus è volatile e non strutturata.

La strategia di Trump, tuttavia, trascende entrambi: cerca di ristrutturare l'ordine istituzionale in risposta alla tirannia delle maggioranze fluttuanti e acritiche, esemplificate dai movimenti progressisti Woke. Allo stesso modo, il progetto di Putin non è un rifugio nel nazionalismo rozzo, ma una rivendicazione metafisica della storia, che sfida la pretesa di universalità del paradigma liberale-illuminista. Un punto di partenza fondamentale per comprendere questa doppia controrivoluzione risiede nel discorso di Putin del 21 febbraio 2022, in cui ha tacitamente dichiarato la morte della “fine della storia” di Fukuyama e la resurrezione del divenire storico (Putin, 2022).

Negando la legittimità della NATO come “arbitro del destino dell'umanità”, come ribadito dal ministro degli Esteri Sergei Lavrov, Putin ha lanciato una sfida globale all'ordine mondiale guidato dagli Stati Uniti, affermando l'autorità morale della Russia di resistere ai tentativi occidentali di limitare il naturale movimento della storia verso un equilibrio multipolare (Lavrov, 2022). Ciò ha infranto il consenso post-guerra fredda, definito da Fukuyama come il trionfo della stabilità meccanica della democrazia liberale (Fukuyama, 1992). In questo modo, Putin ha reintrodotto una premessa di ispirazione hegeliana: la storia non avanza attraverso un consenso statico, ma attraverso la risoluzione attiva delle contraddizioni strutturali.

Questa rottura ha creato lo spazio ideologico per la controrivoluzione di Trump, che difficilmente sarebbe potuta emergere senza la precedente frattura del mito liberale della convergenza inevitabile. La rivendicazione di Putin della storia come conflitto e divenire – contro la visione di Fukuyama di un consenso universalista senza attriti – ha fornito il presupposto ontologico per il progetto neoreazionario di Trump, che cerca di ricostituire la sovranità attraverso la concentrazione del potere in élite funzionali che operano al di là dei vincoli normativi. L'approccio di Trump si ispira a pensatori neoreazionari come Curtis Yarvin e Nick Land, ispirati da Carlyle e Nietzsche, che rifiutano il centrismo politico del paradigma liberale-illuminista.

Il neocameralismo di Yarvin concepisce lo Stato come una società privata guidata da un amministratore delegato con autorità assoluta, responsabile non nei confronti della deliberazione pubblica ma dei risultati (Yarvin, 2008), mentre l'accelerazionismo di Land sostiene lo smantellamento degli Stati nazionali liberali a favore di reti autonome e guidate dal mercato (Land, 2012). Entrambi rifiutano i presupposti convenzionali della legittimità politica, insistendo sul fatto che è il successo stesso a definire la legittimità.

Personaggi come Peter Thiel ed Elon Musk amplificano queste idee, posizionando l'ordine politico come un regno di progettazione istituzionale razionale da parte di minoranze capaci, piuttosto che una semplice estensione della volontà popolare. Questa visione risuona con la dialettica hegeliana che, come ha osservato T. L. S. Sprigge, richiede conflitto, tensione e rottura piuttosto che compromesso (Sprigge, 1993). Al contrario, il centrismo occidentale, con la sua “tolleranza repressiva” (Marcuse, 1965), ostacola lo sviluppo storico trattando la sinistra e la destra come simmetriche, ignorando i salti qualitativi e le asimmetrie inerenti alla dialettica dinamica.

La sfida della Russia, parallelamente, si basa su una reinterpretazione della classica distinzione romana tra potestas e auctoritas, interpretata attraverso una lente heideggeriana. La Russia di Putin afferma che gli Stati esistono in un contesto internazionale anarchico, senza un'autorità sovranazionale in grado di far rispettare la legge. In questo contesto, il cosiddetto “ordine internazionale” riflette le politiche di un blocco occidentale piuttosto che un quadro genuinamente pluralista. La risposta della Russia, articolata da pensatori come Aleksandr Dugin, cerca di garantire il suo Essere-nel-mondo (In-der-Welt-sein) contro il disorientamento morale del liberalismo postmoderno.

Ispirandosi a Heidegger, Dugin definisce l'identità civile della Russia come un corpo morale dotato di forza normativa (δικαιοσύνη, dikaiosýne), che preserva l'esistenza collettiva attraverso un'egemonia morale incompatibile con l'atomismo sociale occidentale (Dugin, 2012). Questa visione è mediata simbolicamente dalla Chiesa ortodossa russa che, come sottolinea il patriarca Kirill, rifiuta l'antropocentrismo pagano e il politeismo – metafore della frammentazione occidentale – a favore di una tradizione unificata che coltiva il significato morale attraverso pratiche condivise e norme sociali (Kirill, 2016).

L'opera di Lev Gumilev arricchisce ulteriormente questo quadro. Il suo concetto di “passionarnost” indica la volontà esistenziale del popolo russo di persistere nonostante le pressioni esterne volte a desterritorializzare la sovranità e ridurre gli individui a unità astratte e distributive. Il determinismo geografico di Gumilev, affine all'ontologia heideggeriana, sottolinea che un confine non si limita a delimitare, ma costituisce il luogo della presenza (Gumilev, 1989). Ciò è in sintonia con il discorso di Putin e Lavrov sui confini, che, parafrasando Heidegger, afferma che senza un quadro attributivo che definisca il dovere civico e l'obbligo morale, gli individui sono privati di significato.

La vasta geografia e la complessità socioculturale della Russia richiedono uno Stato forte per armonizzare le identità interetniche e interconfessionali, resistendo alla tribalizzazione caratteristica del multiculturalismo occidentale. Questo codice civilizzatore, radicato in una sinfonia tra Chiesa e Stato, contrasta nettamente con la riduzione secolarista occidentale dello Stato all'ordine giuridico e dei problemi umani alla regolamentazione giuridica. Di conseguenza, la tensione tra l'America di Trump e la Russia di Putin, da un lato, e le élite europee, dall'altro, trascende il semplice stile o la politica.

Essa rappresenta un'asimmetria simbiotica radicata in visioni del potere fondamentalmente diverse: una che preserva l'apertura dialettica attraverso la gestione deliberativa del dissenso, l'altra che sostiene la concentrazione dell'autorità nelle élite funzionali (Trump) o in uno Stato civilizzatore (Putin) per risolvere le contraddizioni attraverso l'agonismo e la trascendenza, mentre l'Europa porta ancora l'ombra della dialettica padrone-schiavo di Hegel.

Mentre l'Europa privilegia il pluralismo regolamentato e la conservazione istituzionale dell'opposizione polare (Guardini, 1925), i neoreazionari americani e i tradizionalisti russi considerano il conflitto come un'opportunità per ricostruire la sovranità. La controrivoluzione di Trump, resa possibile dal rifiuto di Putin del consenso di Fukuyama, sfrutta questa divergenza ontologica per sfidare la pretesa di universalità dell'ordine liberale, promuovendo invece una concezione della storia come interazione dinamica tra conflitto e risoluzione, dove la legittimità non è stabilita dal consenso ma dalla capacità di agire con decisione in un'era di crisi sistemica.

Traduzione di Costantino Ceoldo